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Giustizia sportiva digitale: tra modernità e rischi di tecnicismi.Una riflessione sull’identità dell’ordinamento sportivo

Lenardon Cristina giustizia sportiva

A cura dell'Avv. Cristina Lenardon La digitalizzazione è ormai parte integrante della giustizia sportiva italiana. L’introduzione di sistemi telematici nelle principali Federazioni — e, in particolare, il Processo Sportivo Telematico della FIGC, oggi la piattaforma più evoluta — non rappresenta soltanto un aggiornamento degli strumenti, ma tocca la natura stessa dell’ordinamento sportivo.


Non si tratta di un semplice passaggio tecnologico: è un mutamento strutturale che investe il

modo in cui si concepisce, si organizza e si garantisce la tutela all’interno del mondo dello sport.


Quest’ultimo, come noto, trova fondamento normativo nella Legge 17 ottobre 2003, n. 280, che agli artt. 1 e 2 riconosce alle organizzazioni sportive autonomia nell’adozione di regole e nella gestione delle controversie interne. È in questo quadro che opera il Codice di Giustizia Sportiva del CONI, uno dei testi più rappresentativi di tale autonomia, il quale, all’art. 2 e seguenti, riafferma principi quali il contraddittorio, la parità delle parti, la ragionevole durata del procedimento, la motivazione dei provvedimenti e la necessaria chiarezza e sintesi degli atti.


Tali principi hanno contribuito a modellare un sistema di giustizia storicamente “leggero”, caratterizzato da rapidità, comprensibilità e informalità procedurale, connotato — soprattutto nei gradi di primo livello — da una minore incidenza di formalismi e dalla frequente possibilità per i tesserati di difendersi personalmente. 


 È un’impostazione funzionale alla natura dello sport, dove il fattore tempo e la necessità di decisioni rapide rappresentano componenti imprescindibili, specie quando gli esiti disciplinari incidono direttamente sull’attività agonistica o sulla regolarità delle competizioni e dei campionati in corso.


Tuttavia, la transizione al digitale sta introducendo una tensione evidente: la semplicità che per anni ha rappresentato la cifra identitaria del processo sportivo rischia oggi di essere assorbita da un modello più vicino a quello giurisdizionale statale, più tecnico, più strutturato, più esigente sotto il profilo formale.


È l’effetto naturale dell’introduzione di strumenti digitali che, per definizione, richiedono standard minimi di competenza, conformità e precisione.


Il parallelo con il PCT (Processo Civile Telematico) risulta emblematico.


In ambito civile, la digitalizzazione — pur necessaria e indiscutibilmente vantaggiosa — ha prodotto un aumento esponenziale dei requisiti tecnici: firma digitale, rispetto rigoroso dei formati, protocolli standardizzati, deposito telematico scandito dal timestamp.


La dottrina ha più volte evidenziato come tali elementi abbiano determinato un “irrigidimento

formale” del processo, riducendo gli spazi di tolleranza per irregolarità meramente materiali.


Se questo accade nel processo statale, dove la difesa tecnica è (quasi sempre) obbligatoria, è facile comprendere come simili effetti possano essere dirompenti nel contesto sportivo, che coinvolge spesso anche figure prive di competenze giuridiche o informatiche.


Vi è poi un ulteriore elemento: la differente “maturità digitale” delle varie Federazioni, che rischia di creare un sistema a velocità variabile, con disparità di trattamento tra sport più strutturati e sport “meno attrezzati”.


La giustizia sportiva, infatti, non è popolata soltanto da avvocati, consulenti o dirigenti professionisti: vi rientrano atleti, allenatori, dirigenti volontari, società dilettantistiche, talvolta prive di qualunque supporto legale o informatico strutturato. E così, anche quando nei gradi inferiori l’autodifesa è teoricamente ammessa, l’introduzione del digitale può renderla, di fatto, estremamente complessa.


L’assenza di firma elettronica, la difficoltà nel predisporre documenti conformi, l’uso non intuitivo delle piattaforme di deposito rappresentano solo alcuni degli ostacoli che possono incidere sull’effettività del diritto di difendersi.


Senza contare il fatto che si finisca per attenuare proprio quella dimensione “umana” del contraddittorio che ha sempre caratterizzato la giustizia sportiva, trasformando il confronto tra le parti in un flusso di atti digitali e riducendo la capacità degli organi giudicanti di cogliere le sfumature, i contesti e, talvolta, appunto, l’umanità delle vicende disciplinari. In questo scenario, la digitalizzazione rischia di trasformarsi — anche in assenza di finalità distorsive — in una leva di controllo: non nel senso di un potere decisionale improprio o di manipolazioni, ma poiché la possibilità stessa di accedere al procedimento dipende dal possesso di strumenti e competenze digitali. L’errore formale, un tempo valutato con una certa elasticità, tende oggi a tradursi in inammissibilità; la rigidità dei sistemi informatici riduce gli spazi di discrezionalità degli organi giudicanti; la centralizzazione dei flussi documentali attribuisce al gestore della piattaforma un ruolo determinante nella definizione delle condizioni operative del processo.


È il riflesso naturale di un modello più complesso, ma anche il punto nevralgico della riflessione critica.

Accanto ai rischi, la digitalizzazione offre però opportunità di grande valore sistematico.


La più significativa riguarda la capacità — finora inespressa — del processo telematico di

generare dati strutturati.

La giustizia sportiva dispone già di una base di decisioni pubblicate, ma ciò che manca è un

sistema che trasformi la somma delle singole pronunce in informazioni aggregate.


Sarebbe utile avere evidenza di numeri analizzabili, conoscendo, ad esempio, la tipologia di illeciti più contestati, la durata media dei procedimenti, l’incidenza delle autodifese, le percentuali di inammissibilità per errori tecnici o i tassi di riforma. La digitalizzazione, appunto, è lo strumento ideale per produrre questa conoscenza: è l’approccio, già sperimentato nei Paesi anglosassoni, della cosiddetta evidence-based policy, ovvero l’insieme di metodologie che guidano le decisioni pubbliche attraverso l’analisi sistematica di dati, studi empirici, indicatori statistici anziché attraverso percezioni episodiche.


Una tracciabilità integrale dei flussi digitali, inoltre, potrebbe contribuire a una più stabile prevedibilità dei tempi dei procedimenti endofederali, tendendo ad un’equità complessiva del sistema.


Il punto, dunque, non è scegliere se la digitalizzazione rappresenti un’opportunità o una minaccia. 


È riconoscere che può essere entrambe le cose.


La vera sfida sarà la capacità dell’ordinamento sportivo di governare l’innovazione senza

sacrificare i principi che lo definiscono.


Ed è qui che ritorna attuale il valore dell’autonomia.


Perché se è vero che con l’adozione della Legge 280 del 2003, è stata riconosciuta la capacità dell’ordinamento sportivo di dotarsi di “regole proprie” e di una “propria giurisdizione interna”, è altrettanto vero che tale autonomia non può oggi tradursi in una mera imitazione del processo civile, ma deve orientare l’adozione di strumenti realmente coerenti con le esigenze dello sport, preservando semplicità, accessibilità ed effettività del diritto di difesa.


La digitalizzazione potrà essere un reale progresso solo se integrata nel rispetto di questa identità.


Altrimenti, rischia di trasformarsi in una sovrastruttura che appiattisce la giustizia sportiva su

modelli che non le appartengono. Il futuro dipenderà, dunque, dal modo in cui questa autonomia sarà esercitata: come semplice adeguamento tecnologico o come occasione per costruire una giustizia sportiva moderna, efficace e ancora fedele alla sua funzione originaria.

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